Con la sentenza del 17 ottobre 2019 n. 42565, la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire, in primis, che la diffusione in rete, poiché per sua natura destinata a raggiungere un numero indeterminato di soggetti, caratterizza la continuità dell’offesa, poiché la condotta volontaria dell’imputato che avrebbe potuto rimuovere i dati dai social ma non lo ha fatto, è persistente. Inoltre, in tema di vizio motivazionale della sentenza, il ragionevole dubbio deve essere riconducibile a ricostruzioni dei fatti non solo astrattamente ipotizzabili in rerum natura, ma la cui plausibilità sia ancorata alle risultanze probatorie processuali. (Cassazione penale, sezione III, sentenza 17 ottobre 2019, n. 42565).
Ha precisato la Corte che il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, nel testo vigente ratione temporis, incriminava la condotta di chi, al fine di trarre per sè o per altri profitto o di recare ad altri un anno, procedesse al trattamento di dati personali, in violazione di quanto disposto dagli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’art. 129. L’art. 4, comma 1, lett. b) del medesimo D.Lgs. nel testo allora vigente identificava il dato personale come qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili anche indirettamente; la precedente lett. a) identificava, per quanto ora rileva, il trattamento come qualunque operazione o complesso di operazioni concernenti la comunicazione e la diffusione di dati (le nozioni sono oggi rispettivamente riprodotte, in termini sostanzialmente sovrapponibili, ai fini del presente procedimento, nei numeri 1 e 2 dell’art. 4 del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, richiamato nell’attuale D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 1, c,e/ e.
Ciò posto, l’attività di diffusione, da intendersi come la conoscenza dei dati fornita ad un numero indeterminato di soggetti (v., ora, il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 2-ter, comma 4, lett. b); all’epoca dei fatti, la nozione era contenuta nel D.Lgs. cit., art. 4, comma 1, lett. m).