Con la sentenza n. 20 depositata in data 21 febbraio 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
Il giudizio è stato promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, con ordinanza del 19 settembre 2017, iscritta al n. 167 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Il TAR Lazio espone che i ricorrenti nel giudizio a quo – dirigenti di ruolo inseriti nell’organico dell’ufficio del Garante per la protezione dei dati personali – agiscono per l’annullamento: della nota del Segretario generale del Garante per la protezione dei dati personali n. 34260/96505 del 14 novembre 2016; delle note del medesimo organo, n. 37894/96505, n. 37897/96505, n. 37899/96505, n. 37892/96505, n. 37893/96505, n. 37898/96505, del 15 dicembre 2016, «previa eventuale disapplicazione dell’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33», oppure previa rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione europea o alla Corte costituzionale «della questione in ordine alla compatibilità delle disposizioni sopra citate con la normativa europea e costituzionale».
Lo stesso TAR Lazio ricostruisce, nel suo sviluppo storico, il quadro normativo pertinente agli obblighi di trasparenza gravanti sui dirigenti pubblici, fino allo stato attuale, risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 97 del 2016.
La disposizione dichiarata incostituzionale indica come oggetto dell’obbligo di comunicazione i seguenti dati: a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti; e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti; f) le dichiarazioni e le attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n. 441 (Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni enti) – relative alla dichiarazione dei redditi e alla dichiarazione dello stato patrimoniale, quest’ultima concernente il possesso di beni immobili o mobili registrati, azioni, obbligazioni o quote societarie –, limitatamente al soggetto interessato, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano, con la previsione che venga data evidenza al mancato consenso.
Secondo i dirigenti del Garante privacy che avevano adito il TAR Lazio, il livello di trasparenza richiesto dalla normativa appena illustrata determinerebbe il trattamento giuridico dei dati indicati a carico di un notevolissimo numero di soggetti, approssimativamente stimati in circa centoquarantamila unità, senza contare né i coniugi né i parenti fino al secondo grado, in base a elaborazioni attribuite all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Ricorda che essi sottolineano il carattere limitativo della riservatezza individuale di un trattamento che non troverebbe rispondenza in alcun altro ordinamento nazionale, ponendosi in contrasto con il «principio di proporzionalità di derivazione europea». Il trattamento in questione si fonderebbe «sull’erronea assimilazione di condizioni non equiparabili fra loro (dirigenti delle amministrazioni pubbliche e degli altri soggetti cui il decreto si applica e titolari di incarichi politici)», prescindendo «dall’effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta».
Secondo il Garante della privacy, costituitosi nel giudizio innanzi al TAR Lazio, quest’ultimo sarebbe incorso in un difetto di giurisdizione sulla scorta dell’espressa previsione della devoluzione delle controversie al giudice ordinario prevista dall’art. 152 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella formulazione vigente al momento della proposizione del ricorso.
La Corte costituzionale, ha ricordato che nella fattispecie ci si trova su un terreno nel quale risultano in connessione – e talvolta anche in visibile tensione – diritti e principi fondamentali, contemporaneamente tutelati sia dalla Costituzione che dal diritto europeo, primario e derivato.
Da una parte, il diritto alla riservatezza dei dati personali, quale manifestazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata (sentenza n. 366 del 1991), che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi molteplici aspetti. Un diritto che trova riferimenti nella Costituzione italiana (artt. 2, 14, 15 Cost.), già riconosciuto, in relazione a molteplici ambiti di disciplina, nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 173 del 2009, n. 372 del 2006, n. 135 del 2002, n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), e che incontra specifica protezione nelle varie norme europee e convenzionali evocate dal giudice rimettente. Nell’epoca attuale, esso si caratterizza particolarmente quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e si giova, a sua protezione, dei canoni elaborati in sede europea per valutare la legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati personali. Si tratta dei già ricordati principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, in virtù dei quali deroghe e limitazioni alla tutela della riservatezza di quei dati devono operare nei limiti dello stretto necessario, essendo indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura possibile sul diritto fondamentale, pur contribuendo al raggiungimento dei legittimi obiettivi sottesi alla raccolta e al trattamento dei dati.
Dall’altra parte, con eguale rilievo, i principi di pubblicità e trasparenza, riferiti non solo, quale corollario del principio democratico (art. 1 Cost.), a tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell’art. 97 Cost., al buon funzionamento dell’amministrazione (sentenze n. 177 e n. 69 del 2018, n. 212 del 2017) e, per la parte che qui specificamente interessa, ai dati che essa possiede e controlla. Principi che, nella legislazione interna, tendono ormai a manifestarsi, nella loro declinazione soggettiva, nella forma di un diritto dei cittadini ad accedere ai dati in possesso della pubblica amministrazione, come del resto stabilisce l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013. Nel diritto europeo, la medesima ispirazione ha condotto il Trattato di Lisbona a inserire il diritto di accedere ai documenti in possesso delle autorità europee tra le «Disposizioni di applicazione generale» del Trattato sul funzionamento dell’Unione, imponendo di considerare il diritto di accesso ad essi quale principio generale del diritto europeo (art. 15, paragrafo 3, primo comma, TFUE e art. 42 CDFUE).
La Corte ha poi rilevato che in nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni, «allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013).
Resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche, concludendo che, proprio da questo punto di vista, risultano non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’obbligo imposto a ciascun titolare di incarico dirigenziale di pubblicare i dati di cui alla lettera c) dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, e dunque i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici.
A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto imposti dal censurato comma 1-bis dello stesso articolo, senza alcuna distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali. Anche per essi, oltre che per i titolari di incarichi politici, è ora prescritta la generalizzata pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale.
Si tratta, in primo luogo, di dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato. Essi offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.
L’onere di pubblicazione in questione risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione.
Sono le stesse peculiari modalità di pubblicazione imposte dal d.lgs. n. 33 del 2013 ad aggravare il carattere, già in sé sproporzionato, dell’obbligo di pubblicare i dati di cui si discute, in quanto posto a carico della totalità dei dirigenti pubblici. L’indicizzazione e la libera rintracciabilità sul web, con l’ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati personali pubblicati, non è coerente al fine di favorire la corretta conoscenza della condotta della pubblica dirigenza e delle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche. Tali forme di pubblicità rischiano piuttosto di consentire il reperimento “casuale” di dati personali, stimolando altresì forme di ricerca ispirate unicamente dall’esigenza di soddisfare mere curiosità.
La disposizione censurata, come si è più volte sottolineato, non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati. Il legislatore non prevede alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale. La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni tra i titolari d’incarichi dirigenziali: l’art. 1,
comma 5, lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere al Dipartimento della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione che fornisca «una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio».
La Corte non può esimersi, tuttavia, dal considerare che una declaratoria d’illegittimità costituzionale che si limiti all’ablazione, nella disposizione censurata, del riferimento ai dati indicati nell’art. 14, comma 1, lettera f), lascerebbe del tutto privi di considerazione principi costituzionali meritevoli di tutela. Sorge, dunque, l’esigenza di identificare quei titolari d’incarichi dirigenziali ai quali la disposizione possa essere applicata, senza che la compressione della tutela dei dati personali risulti priva di adeguata giustificazione, in contrasto con il principio di proporzionalità.
Ciò spetta alla discrezionalità del legislatore, al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi. Nondimeno, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo nuovo intervento del legislatore. Da questo punto di vista, l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai commi 3 e 4 contiene indicazioni normative che risultano provvisoriamente congruenti ai fini appena indicati. Tali commi individuano due particolari categorie di incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4).
Le competenze spettanti ai soggetti che ne sono titolari, come elencate al precedente art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001, rendono manifesto lo svolgimento, da parte loro, di attività di collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali il legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente. L’attribuzione a tali dirigenti di compiti – propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa – di elevatissimo rilievo rende non irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza di cui si discute.
In definitiva, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Fonte: Corte costituzionale
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